Mi è capitato di leggere questo articolo di Antonella Giani: il Viagra del ‘500.
Si parla della salama da sugo, e siccome non posso scriverne meglio di lei, leggetevelo!
…e se vi capita, assaggiatela!!!
l’articolo:
Il viagra del ‘500
di Antonella Giani
Preparazione complessa (con vino e spezie) e cottura lunga, la salama da sugo ferrarese è un’esperienza mistica, ma solo per palati forti. Tanto che le donne di casa d’Este la inventarono quando i loro uomini arrivavano sfiniti dalle guerre, per farli tornare rinvigoriti ai letti coniugali
Anche gli sceriffi dello slowfood lo dichiarano: la salama da sugo di Ferrara è un capolavoro culinario, ambìto wanted da qualsiasi enogastronauta che si rispetti. Nata sotto la buona stella del ducato estense, la salamina, come affettuosamente la chiamano i ferraresi, conserva da oltre 500 anni il gusto forte e intenso dei fasti rinascimentali che la misero in tavola. Di quell’età d’oro di gozzoviglie e splendori trattiene immutato l’aroma di spezie, chiodi di garofano e cannelle. Insaccato ricercato dal sapore intenso, va dunque gustato con attenzione e parsimonia, mettendo le papille gustative e i sensi tutti a disposizione di un’esperienza mitica.
Cantata nell’opera La Porcheide di Scipione Sacrati Giraldi nel XVIII secolo, è il frutto di una ricetta antica, unica e irripetibile, tramandata nei secoli. Le prime tracce compaiono in corrispondenze epistolari illustri, da Lorenzo il Magnifico che, in una lettera datata 15 febbraio 1481, ringrazia Ercole d’Este per la “graditissima salama da sugo” ricevuta in dono dal Duca, fino a Giorgio Bassani, che la rammenta nelle vicende dei Finzi Contini facendo eco a Giosuè Carducci, altro suo grande estimatore. Valery la descrive come la “saucisson da suc” e, più recentemente, Mario Soldati ne decanta la granulosità della polpa e i forti aromi che si sprigionano da ciascun grano e dal sugo fervido, liscio e denso. Nel 1722, in un poemetto intitolato La salameide, le più belle ottave sono dedicate alla salama, con espliciti richiami alla sua tipica forma ogivale che ricorda lo stile ricorrente nel vasellame del XV-XVI secolo, caratterizzato da spicchi rigonfi. Il poeta Francesco Pastronchi ha scritto: “Davvero credo che l’abbiano inventata per i loro uomini le donne di casa d’Este, insieme con la bellezza e la cortesia di una casa ferrarese”. Narrano infatti le cronache che le donne degli Estensi, disilluse dai continui allontanamenti dei loro uomini che rimanevano assenti mesi ed anni per guerre e imprese di ogni genere, tornando stanchi e sfiniti, cercarono il modo di far loro recuperare prontamente le forze e farli tornare, ingagliarditi, ai talami coniugali. Le piccanti memorie di Lucrezia Borgia, confermate da antiche leggende, spiccano sul palato come un deja vu.
La lavorazione è complessa e ogni produttore conserva gelosamente la propria ricetta. L’insaccato custodisce un amalgama di varie parti del maiale, meglio se della scrofa, un impasto di quelle frattaglie meno nobili ma più saporite. Abbondantemente speziata con sale, pepe, cannella, noce moscata e chiodi di garofano, viene arricchita e intrisa di vino rosso preferibilmente vecchio e non imbottigliato, e talvolta da rum, brandy o marsala, con cui viene riempita la vescica dell’animale. La salamina acquista l’inconfondibile sapore dopo una lunga stagionatura, che varia dai 6 ai 24 mesi, appesa al soffitto o posta sotto la cenere in un luogo fresco, areato e rigorosamente al buio. La sua preziosità e rarità sta nel fatto che se ne ottiene una soltanto da ciascun maiale ed ancora oggi è prodotta rispettando criteri artigianali. Dopo la cottura presenta una polpa sfilacciata e granulosa, umida, con un intenso color rosso rubino, venato da sfumature brune.
Come preparazione preliminare la salama va messa a bagno in acqua tiepida per una notte, onde ammorbidire le incrostazioni esterne che vanno poi delicatamente spazzolate. Deve quindi essere immersa, avvolta in un panno di tela, in una pentola d’acqua ma senza farle toccare il fondo: uno stecco di legno appoggiato ai bordi la sosterrà appesa al suo stesso spago. Il tempo di cottura deve essere lungo e moderato, anche 8 ore non la guasteranno. Fondamentale che la vescica non si spacchi perché, sacrilegio!, il suo sughetto si perderebbe irrimediabilmente. A questo proposito, si consiglia di sfruttare le modernità domopak e servirsi di speciali sacchetti di plastica, piuttosto che veder dissipare il sugo che la rende succulenta. Una volta cotta la si libera dallo spago e la si incide all’apice, ricavando un’apertura che permetta di raccogliere il morbido impasto con un cucchiaio. E’ sconsigliato tagliarla a spicchi, se non nel caso che venga servita fredda. Il modo ideale per gustarla presuppone idonee condizioni climatiche e ambientali, con gelo e nebbia all’esterno, un camino scoppiettante all’interno di un’accogliente e ampia cucina, nonché la prestazione fisica di buoni stomaci sani e robusti. Imprescindibile servirla su un letto morbido di purè di patate, abbinata a fichi o melone, se è estate e la gustate fredda.
La salama è senz’altro, dal punto di vista organolettico, uno dei salumi più difficili che esistano. L’impatto è da palati forti e, allo stesso tempo, raffinati, le note muschiate conferite dalla lunga stagionatura si mescolano all’acre del vino rosso, alla prepotenza delle spezie, alla sapidità invadente della carne suina offrendo sensazioni vertiginose. Provarla per credere.